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N°16

 AMERICAN WOMAN

 

La prestigiosa galleria d’arte di Andrea Rosen di New York ospita alcuni degli artisti più in voga del momento. Questa sera l’onore di vedere esposti i propri lavori toccava all’artista emergente Maya Lopez. Per lei era il coronamento di un sogno: la sua carriera di pittrice stava finalmente per spiccare il volo. La sala era piena di gente ricca e famosa, tutti accorsi fin lì per ammirarne i quadri e congratularsi con lei.

Fin dall’infanzia Maya aveva sviluppato un grande amore per l’arte, forse perché per ammirare i colori e le immagini non era necessario l’udito, e il suo handicap veniva dimenticato per qualche istante. Grazie poi al suo particolare talento di saper ripetere perfettamente qualsiasi movimento osservasse, anche per una sola volta, aveva girato il mondo per apprendere le tecniche dei grandi maestri delle più prestigiose scuole d’arte, per poi cercare di creare un proprio stile personale. Una ricerca che finalmente stava dando i propri frutti.

<Congratulazioni Maya. Sono davvero felice per te!> le disse Kate Bishop.

<Grazie mille Kate. E grazie per essere venuta ...>

<Scherzi? Come potevo mancare!>

<Beh so che non ami molto i ricevimenti dell’alta società ... cosa che ho sempre trovato un pochino insolita.>

<Non sei la prima a dirmelo... ma i tuoi lavori sono bellissimi, e poi anche la mia famiglia ci teneva a vederli ; sai, è la prima uscita di mamma da dopo ... l’incidente. [Giovani Vendicatori # 2- 3]. Per fortuna che si è ripresa bene. Sembra anche intenzionata ad acquistarne uno ...>

<Ne sarei veramente lusingata ...>

<Non devi. E’ il giusto riconoscimento al tuo talento.> disse una voce alle loro spalle. Si voltarono e videro un affascinante ragazzo, uno e ottanta circa, capelli e occhi neri che indossava un elegante completo di Versace.

<Mike! Sei venuto anche tu!> disseMaya con voce entusiasta.

<Non mi sarei perso il tuo debutto per niente al mondo.> disse abbracciandola.

<Ah voi due non vi conoscete. Kate Bishop, ti presento un mio caro e vecchio amico ... Michael Manfredi.>

<Piacere. Non mi avevi mai parlato di lui. Ma capisco che certi amici affascinanti li vuoi tenere tutti per te.> disse Kate sorridendo , mentre stringeva la mano al ragazzo.

<Sei la figlia di Derek Bishop, presumo. Ho conosciuto tua sorella Susan, ma non sapevo che avesse un’altra figlia...>

<E’ che io non amo molto questo genere di serate, come stava appunto dicendo Maya. Sono l’esatto opposto di mia sorella. Diciamo che sono la pecora nera della famiglia.>

<Capisco perfettamente, credimi.> rispose Mike. Infatti, lui era figlio di Silvio Manfredi, noto anche come Silvermane, uno dei più temibili boss criminali della città. Ma Mike rifiutava ogni coinvolgimento con la sua famiglia e con le loro sporche attività, e aveva sempre cercato di starne alla larga e di rifarsi una vita lontano da loro, ma purtroppo quel cognome pesava come un macigno e per quanto cercasse di sfuggirgli, per quanto avesse mantenuto una fedina penale pulita, per quanta beneficenza facesse, la vergogna non lo aveva mai abbandonato.

<Io e Mike ci siamo conosciuti in Italia, a Taormina, quando studiavo presso un noto maestro.>

<Taormina? Bellissima! Ci sono stata quand’era piccola ... ci ho passato una delle vacanze più belle della mai vita.> disse Kate.

<Io ci torno ogni estate. Ho anche comprato casa lì. E stavo pensando di decorarla con uno dei tuoi meravigliosi quadri ...>

<Mike, ti sono molto grata per essere qui. So quanto ti costa ... farti vedere in questi ambienti.>

<Sciocchezze. Stasera sei tu al centro dell’attenzione. Nessuno baderà a me.>

Mike si chinò per farle un elegante baciamano, e non appena si piegò, Maya ebbe modo di vedere l’uomo che stava alle sue spalle. Era distante qualche metro, e la fissava con attenzione. Indossava un abito nero, con la camicia aperta sul petto e un vistoso girocollo d’oro. Era un pellerossa. Maya lo riconobbe e trasalì.

<Che c’è?> chiese Kate <E’ per via di quel cafone?>

<Lo conosci?> domandò a sua volta Mike.

<No ... no scusate, io ... mi sono sbagliata.> disse dirigendosi verso l’altra parte della sala.

 

***

 

La serata era stata un grande successo. Maya aveva strappato consensi e applausi all’unanimità. C’era di che andare fieri, di sentirsi appagati. Ma la giovane donna invece se ne stava pensierosa ed in silenzio, mentre Michael la riaccompagnava a casa.

<Ho comprato una bottiglia di Dom Perignon per festeggiare ... ma tu non mi sembri dell’umore per farlo. Si può sapere che cos’hai? Stasera hai visto realizzarsi i tuoi sogni, la tua carriera come artista è decollata. Sei qualcuno adesso!>

<Si lo so ... lo so, hai ragione. Ma sono stanca, e voglio andarmi a riposare... non sono in vera, stasera.>

<E’ per via di quel tipo che hai visto durante la mostra, l’indiano?>

<No Mike, ho detto che sono solo stanca, tutto qui.> rispose secca.

Arrivati a Soho, Maya scese dall’auto e salutò il suo amico, con un bacio sulla guancia. Mike rimase in auto, stringendo il volante fra le mani.

Maya arrivò al suo piano e si mise a cercare le chiavi nella borsetta. Vide un’ombra spuntare alle sue spalle e si voltò di scatto.

<Mike! Mi hai spaventata ... perchè sei salito? Ti ho detto che stasera non ho voglia di festeggiare e ...>

<So quello che hai detto ... ma è quello che non mi hai detto che mi preoccupa. Guardati ... sei nervosa, tesa, pronta a scattare ... che cosa ti ha reso così? Perché non vuoi parlarmene? C’entra quell’uomo, non è vero? >

<Cristo Mike, ma perché insisti tanto? Ti ho detto che sto bene! Perché non mi lasci in pace?>

<Ma andiamo, a chi vuoi darla a bere? Tu non stai bene! Sei spaventata e vorrei sapere da cosa ...>

<E’ una cosa più grande di te ... non puoi aiutarmi. Per favore, va a casa, lasciami sola ...>disse voltandosi e infilando la chiave nella toppa.

<Come puoi chiedermi una cosa del genere? Lo sai quanto tengo a te ... >

<Ti prego, ti prego, ti prego ... tornatene a casa, vattene!>

Mike le andò vicino, afferrandola per le spalle e girandola in modo da poterla guardare negli occhi.

<No Maya, non posso far ... ehi, ma cos’è questo rumore?> disse rivolto alla porta.

<Cosa?>

<Già tu non lo puoi sentire, ma sembra come un ticchettio ...> un istante dopo gli fu tutto chiaro.

<STA GIU’!>

Si tuffarono per terra, mentre l’appartamento di Maya saltava per aria.

 

Villa Bishop. Il giorno dopo.

<Kate, c’è il tuo insegnate, scendi!> disse Susan Bishop, andando ad accogliere l’ospite alla porta; cosa che non faceva mai, ma quando c’era l’attraente mister Barton, a bordo della sua moto e con quelle magliette attillate, Susan diventava “sospettosamente” ospitale.

<Vuole accomodarsi, mister Barton? Le faccio portare qualcosa da bere?>

<No grazie, non disturbi la servitù, sono a posto così.>

<Si non serve Suzie. Mr. Barton non si fermerà a lungo.> disse Kate scendendo le scale che portavano nell’atrio. Aveva le pantofole ai piedi e non indossava l’abbigliamento da ginnastica.

<Beh che hai? Perché sei ancora conciata così?>

<Stavo facendo i compiti. Da oggi non ci saranno più lezioni, né di ginnastica né di tiro con l’arco. I tuoi servizi non sono più richiesti.> disse, fredda come il ghiaccio.

<Cos’è quel broncio, Katie?>

<Come sarebbe a dire? Mi ha fregata, l’ultima volta! Mi hai mandata a cercare fantasmi in quel letamaio occupato da barboni mentre tu e la tua amichetta con lo scudo - di cui non ho mai sentito parlare ma a cui da più credito che a me – andavate a caccia di criminali!>

<Eddai Kate ...  non potevo mica permetterti di dar la caccia al ...>

<No, stammi a sentire! Avevi detto che ti fidavi di me! Abbiamo combattuto insieme a Salem, non molto tempo fa [Vendicatori  # 84- 85]e adesso mi fai un tiro mancino di questo genere! Cos’è, volevi star solo con Miss America?>

Kate gli porse una scatola e un assegno.

<Qui c’è l’ultima tua mensilità. Ti saluto.> poi si voltò e salì le scale.

Stavolta se l’era legata al dito. Clint immaginava che avrebbe dovuto discuterci, ma non aveva previsto un esito del genere. Appena fuori dalla villa aprì la scatola e vide il contenuto: erano i manganelli d’acciaio di Mimo, che le aveva regalato qualche tempo fa. Era stato un gesto molto significativo, volto a mostrarle fiducia ... che però s’era rimangiato. C’era effettivamente una certa contraddizione.  Comprendeva perfettamente lo stato d’animo della ragazza: anche lui sbottava quando qualcuno non gli mostrava fiducia. Più trascorreva tempo con lei, più si accorgeva quanto in fondo si assomigliavano. Ma forse il passare degli anni aveva insegnato a Clint quel buonsenso che gli mancava in gioventù, e sebbene la ragazza avesse doti fuori dal comune, rimaneva pur sempre un’adolescente sotto la sua tutela, e mandarla a caccia di un nazista pazzo come il Teschio Rosso non rientrava certo nei compiti da affidargli.

 

Mercy Hospital.

 

Michael Manfredi si svegliò intontito, a causa degli effetti degli antidolorifici. Ci mise qualche minuto per capire dove fosse e ricordarsi come c’era arrivato. L’infermiera chiamò il dottore non appena lo vide riaprire gli occhi e immediatamente questi raggiunse la sua camera. Il dottore gli disse che non aveva nulla di grave, solo paio di costole incrinate e una piccola commozione cerebrale, che non c’era nulla di cui preoccuparsi, che era stato incredibilmente fortunato a cavarsela con così poco e che presto sarebbe tornato a casa ... ma l’unica cosa che voleva sentire Mike erano le condizioni di Maya.

<La donna che era con me...  che ne è stato?> domandò, secco.

<Non deve preoccuparsi della signorina. Ha solo qualche contusione e alcuni tagli, nulla di serio. E’ lei che ha riportato le ferite peggiori. >

<Voglio vederla. Mi porti da lei.>

<Non è possibile, al momento sta riposando. E dovrebbe farlo anche lei. Ci sono poi alcuni poliziotti che vorrebbero farle alcune domande ...>

<Dopo. Prima voglio vedere Maya.>

<Mister Manfredi, le dovrebbe ...>

<Non mi ha sentito, dottore? Voglio vederla ORA.>

Sebbene non ne andasse assolutamente fiero, era pur sempre il figlio di un ricco padrino della mala, e questo faceva si che tutti fossero accondiscendenti e timorosi con lui. In circostanze normale Michael avrebbe preferito sdraiarsi su di un pavimento di vetri rotti piuttosto che approfittare della pessima reputazione del proprio cognome, ma queste non erano circostanze normali: Maya era in pericolo di vita e doveva saperne di più e se la propria fama poteva essere utile per proteggerla, ne avrebbe approfittato.

L’infermiera portò una sedia a rotelle, Mike vi salì e si fece spingere fino alla stanza di Maya, ma non appena aprì la porta, quello che vide lo lasciò di sasso: il camice era sul letto,e la finestra della stanza aperta.

<Dottore, presto, venga qui: la paziente della 28 è scomparsa!> gridò l’infermiera Espinosa.

<Maya ... ma in che guaio ti sei cacciata?> pensò Mike, preoccupato.

 

Coney Island.

 

Sebbene avesse un appartamento tutto suo, Jessica O’Leary passava le serate in quello di Clint Barton, per cenare insieme o guardarsi un film o anche solo far due chiacchiere prima che lui andasse per i tetti e scoccare frecce contro rapinatori e stupratori. Entrambi adoravano quei momenti di normale relax prima dell’azione. Questa sera però Clint era un po’ giù.

<Wow, certo che s’è davvero arrabbiata> osservò Jessica <Come credi di riconquistarla, adesso?>

<Non lo so... capisco il suo stato d’animo e i motivi per cui se l’è presa... ma ora sta tirando un po’ troppo la corda.>

<Beh Clint sai ... io non ho mai capito come faccia a voler fare tutte le pazzie che fate voi ... voglio dire, da piccoli tutti sogniamo di diventare dei supereroi, ma di solito queste rimangono delle fantasie che spariscono con la prima cotta... ma lei ha una determinazione spaventosa. E’ ammirevole. Vuole fare quello che fai tu... e tu hai accettato di insegnarle i tuoi trucchi; un giorno la incoraggi, ma quando c’è bisogno di collaborare, la liquidi con un imbroglio. E’ comprensibile che si sia arrabbiata.>

<Ma mi ascolti quando parlo? Ti ho detto che l’ho capito benissimo, questo ... ma so che sta solo giocando a fare la preziosa. Vuole che ammetta di essermi sbagliato e farsi pregare di tornare a far coppia, lo so. Vuole giocare a chi ha la testa più dura ... le passerà, vedrai.>

<Ma come fai ad esserne tanto sicuro?>

<Conoscevo ... qualcun altro che era altrettanto cocciuto e orgoglioso. So come prenderla. E poi ... mi ha restituito questi> disse Clint mostrandole i manganelli d’acciaio <Ma non mi ha reso la maschera> precisò con un sorriso sornione <Fidati di me. So quel che faccio.>

<Mah non ne sarei tanto sicura fossi in te... tu non le conosci affatto , le donne, non sai come reagiscono quando vengono ferite.>

<Ti dico che ...> qualcuno bussò alla porta del suo appartamento, interrompendolo.

<Vuoi vedere che è lei?> disse lui, scattando in piedi <Sarà venuta a dettarmi le sue condizioni ...> ma mentre andava verso la porta il bussare si faceva sempre più intenso.

<Arrivo arrivo ... non ti scaldare.> disse da dentro <Ok sentiamo cosa... MAYA!> esclamò, sorpreso di trovarsela davanti la porta. Era ferita e sembrava avesse lottato.

< C-Clint.> fu l’unica cosa che gli uscì dalla bocca, poi gli svenne tra le braccia.

<Jess, presto! La cassetta del pronto soccorso!> gridò poi.

<Subito!>gli rispose la ragazza, correndo nel bagno.

 

Aeroporto JFK. Un’ora prima.

 

Rubare degli abiti dallo spogliatoio delle infermiere era stata una mossa bassa, lo sapeva. Ma era necessaria per non mettere in pericolo il personale dell’ospedale; lei lo sapeva bene, chi la voleva morta sarebbe tornato per completare il lavoro, e non si sarebbe fermato davanti a nessuno. Per fortuna la sua borsetta, contenente i documenti e la carta di credito, non aveva risentito troppo dell’esplosione. Merito dei riflessi di Mike o, meglio ancora, del suo udito. Se non avesse sentito il ticchettio dell’ordigno a quest’ora non sarebbe viva. Michael era un caro ragazzo e non meritava di venire coinvolto in quel casino che era divenuta la sua vita. Ma come aveva potuto pensare di essersi lasciata tutto alle spalle? Non era un gioco da cui si poteva uscire, quello in cui s’era cacciata. Era stata una stupida per aver sperato, anche solo per un momento, di essersela cavata.  Ma una cosa poteva farla: partire. Andarsene. I suoi nemici l’avrebbero rintracciata ovunque; quando sei mezza latina e mezza nativa americana non hai molti posti al mondo dove nasconderti. Era condannata, era questione di tempo, ma almeno Kate, Michael e tutte le persone a cui voleva bene sarebbero stare al sicuro. Era solo questa la cosa che gli importava in questo momento. Aveva preso il primo volo per Buenos Aires. Almeno per un po’ avrebbe messo della distanza tra lei e i suoi inseguitori. Poi una volta lì, avrebbe pensato al da farsi. Andò nel bagno delle persone per sciacquarsi il viso. Era ancora un po’ stordita per gli antidolorifici che le avevano iniettato in ospedale e per le conseguenze dell’esplosione. L’acqua fresca le gocciolava dal viso.

<Maledizione> pensò <Proprio adesso che avevo realizzato i miei sogni...>

Le venne un momento di sconforto. Per un attimo ebbe voglia di piangere, di lasciarsi andare. Tanti sforzi per  rifarsi una vita andati in fumo. Prese un’altra manata d’acqua e se la gettò nuovamente in faccia. Fu questione di un istante; sarebbe bastato un secondo in più con gli occhi chiusi e non avrebbe visto l’uomo uscito dal bagno che cercava di strangolarla con il laccetto. Quando sei sorda devi affidarti al 100% alla tua vista. L’uomo era più forte e non riusciva a liberarsi. Lottava, e agitando le gambe con una pedata ruppe lo specchio. Il sicario faceva sempre più forza. Presa dalla disperazione afferrò un pezzo di vetro tagliente e con quello ferì alla mano il tizio, che gridò dal dolore e mollò la presa, permettendogli di riprendere – faticosamente – a respirare.

<Aaaah..... schifosa .... maledetta puttana!> urlò. Maya approfittò di quel suo momento di agonia per colpirlo al volto con un calcio e metterlo fuori combattimento.

Quando uscì dal bagno ancora tossiva. Cercava di riempire i polmoni d’aria facendo delle grandi boccate.  Cercava di allontanarsi il più velocemente possibile, cercando per quanto possibile passare inosservata, ma l’urlo di una donna che entrando nel bagno vide l’uomo a terra sanguinante attirò l’attenzione di tutti i presenti, inclusi altri due sicari mandati per ucciderla. Chi la voleva morta sapeva che Maya non era una donna qualunque e che avrebbe lottato come una tigre per la propria sopravivenza. I due uomini cercarono di accerchiarla, ma Maya si aspettava una mossa del genere, e con un calcio e alto rotante colpì alla mandibola l’assalitore alle sue spalle, mentre l’altro cercò di colpirla con uno sfollagente, ma lei gli bloccò il braccio e colpì il ventre scoperto con un pugno ben piazzato; poi con un agile salto balzò verso le scale mobili sotto stanti e scivolando lungo il nastro scorrente arrivò in un attimo al piano di sotto.  Il primo aggressore, quello colpito al volto, cercò di spararle con la sua 38, ma Maya fu più veloce nel portarsi fuori dalla traiettoria. Il rumore degli spari richiamò gli addetti alla sicurezza che arrivarono in massa a cercare di fermare i pericolosi assassini.

 

Maya corse a perdifiato per gli ampi corridoi dell’aeroporto diretta verso l’uscita. Inevitabilmente s’era scatenato il panico e le persone stavano scappando a destra e a manca e le intralciavano la corsa. Ma proprio quando le porte automatiche si facevano sempre più vicine, qualcuno le arrivò addosso compendola allo stomaco con una ginocchiata. Maya cadde a terra, piegata in due dal dolore; alzò lo sguardo e riconobbe l’uomo che lo aveva colpita:

<Bre- Brendan...>

Era il pellerossa che aveva visto la sera prima alla galleria. L’uomo che le aveva fatto saltare in aria l’appartamento.

<L’avevo detto a quegli idioti di eliminarti all’ospedale ...>

Estrasse da un fodero che teneva nel retro dei pantaloni un grosso pugnale. Tentò di pugnalare Maya alla gola; il tentativo andò a vuoto, nel senso che la lama non la colpì al collo, ma andò a conficcarsi nella sua spalla, che iniziò a sanguinarle come una cascata. Brendan la colpì con un calcio, poi cercò di pugnalarla una seconda volta, ma due agenti della sicurezza gli si avventarono addosso; essendoci troppi civili non avevano il “tiro pulito”  e non poterono sparargli, allora cercarono di disarmarlo con un confronto fisico. Brendan però era più forte e spietato, e li pugnalò entrambi.

<Levatevi dalle palle!> urlò spingendoli a terra. Ma Maya era scomparsa dalla sua vista. Seguì la scia di sangue fino all’uscita dall’aeroporto ma questo ad un certo punto del marciapiede sparirono.

<Merda ...> disse digrignando i denti.

 

Coney Island. Ora.

 

<Sono riuscita a rubare un taxi e sono arrivata fin qui. Non sapevo dove altro andare.> disse la ragazza, mentre il biondo le medicava la ferita alla spalla.

<Hai fatto bene. Ma forse dovremmo portarti al pronto soccorso...>

<No, non posso. Mi troveranno . Probabilmente sono lì che mi aspettano.>

<Andiamo> disse Jessica <Chi può tenere sotto controllo tutti i gli ospedali della città?>

<Non hai idea di chi ho contro ...> disse la donna malinconicamente.

<Beh allora dillo a me. C’è dietro Taskmaster? A quanto mi risulta è ancora rinchiuso alla Volta ...forse uno dei suoi uomini?>

<No... stavolta Taskmaster non c’entra nulla. Lui è il minore dei mali. Anzi si può dire che è stato lui a rimandare questo momento il più a lungo possibile ...>

<Maya, parli per enigmi. Non m sono mai piaciuti i trip da sciamano. Se vuoi il mio aiuto sarò lieto di dartelo, ma devi raccontarmi tutta la storia... chi è che ti vuole morta, e perché?>

Jessica le portò un bicchiere d’acqua, Maya si prese qualche secondo per berne un sorso, e poi disse:

<E’ una vecchia storia. Risale a ...tanto tempo fa.> fissò il bicchiere perdendosi dentro il contenuto trasparente.

<Mi padre si chiamava Joe Carson.  Erano uno degli uomini di Kingpin, forse l’hai già sentito nominare ... lo chiamavano “Injun Joe”. Quello che non sai è che inizialmente lavorava per un altro boss, uno di etnia Navajo dell’Arizona. Si chiama Jason Greybear e controlla tutti i traffici illeciti da Phoenix a Tucson. Papà aveva cominciato a mettersi in affari con lui a causa mia; la mia particolare condizione richiedeva particolari cure mediche moltocostose... cure che con lo stipendio da carpentiere mio padre non poteva permettersi. Iniziò così la sua carriera nel mondo della mala. Io all’epoca ero solo una bambina e non sapevo nulla di tutto ciò ovviamente; so solo che mia madre mi fece cambiare legalmente nome, togliendo il cognome “Carson”, e lasciò mio padre. Lui allora se ne andò a New York, e dopo che morì mia madre, mi mandò in un istituto per ragazzi prodigio. Lo vedevo in gran segreto un paio di volte all’anno. Non voleva che nessuno sapesse che aveva  una figlia...per proteggermi da eventuali  ritorsioni capisci?>

<Certamente. Ma adesso qualcuno lo ha scoperto e vuole fartela pagare, dico bene?>

<Più o meno. Io allora ero una povera ingenua, non facevo domande sulle attività di mio padre e giravo il mondo per imparare a dipingere. Ma quando venni a sapere della morte di papà il mondo mi crollò addosso. Lui aveva sacrificato la sua vita per permettermi una vita privilegiata ... povero papà ... e io volevo vendicarlo. Era decisa. Chiunque avesse ucciso mio padre l’avrebbe pagata cara!>

Jessica capiva lo stato d’animo di Maya: anche lei era molto legata a suo padre, che fece mille sacrifici per permetterle di inseguire i suoi sogni di attrice. Ma Jake O’Leary morì di cancro e non per mano di un assassino...  ma se così fosse stato, non avrebbe nutrito lo stesso risentimento?

<E allora cos’hai fatto?> le domandò Clint.

<Chiesi informazioni  ai suoi uomini su chi fosse stato, e uno di essi mi disse che il mandante era proprio Greybear, forse per il fatto che aveva lasciato la sua organizzazione. In seguito scoprì che non era così, ma allora gli ho creduto, ingenuamente.  Non si era nemmeno presentato al funerale.... mi sembrava plausibile, e in quel momento crederci disperatamente; volevo qualcuno su cui sfogare la mia rabbia!> esclamò Maya, sfogandosi.

<Ti capisco ....> sospirò laconicamente Jessica.

<Si .. è comprensibile. Tutti qui abbiamo perso qualcuno.> aggiunse Clint< Quando morì Bobbi io ... scusa, torniamo a te. Cos’hai fatto poi?>

< Mi recai in oriente, per organizzare la mia vendetta; prima in Giappone, e poi a Hong Kong. Avevo sentito parlare di un torneo clandestino di arti marziali chiamato kumitè, dove si battevano gli uomini più letali del mondo ... e decisi di parteciparvi.>

<Incontri clandestini come quelli in cui ci siamo conosciuti?> chiese ancora Falco.

<No ... no, cose totalmente diverse. Quelli sono incontri clandestini fatti soprattutto per i fanatici del gioco d’azzardo e buoni per tirar su qualche dollaro. Quello di cui ti parlo io è un vero e proprio torneo volto a scoprire chi sia il miglior combattente del mondo: gente di ogni nazionalità e che usava ogni tecnica di combattimento. Ed era lecito pure uccidere. Lì avrei imparato tutto quello che mi serviva per farmi largo tra gli uomini di Greybear. Mi bastava osservarli. Ma nessuno voleva battersi con una donna; in caso di vittoria nessuno ne avrebbe tenuto conto, mentre venire sconfitti significava perdere di credibilità. Ma le mie capacità attirarono le attenzioni di un uomo... una leggenda, in quegli ambienti. Il suo nome era Shen Kuei, noto come “il gatto”. L’uomo più abile con cui mi sono battuta. Una vera e proprio arma vivente. Era rimasto impressionato dalla mia capacità di apprendere tecniche complesse con una semplice occhiata. Lo divertiva. Mi prese come allieva e mi ha insegnato quasi tutto quello che so. Passai diverse settimane ad allenarmi con lui, quando finalmente mi sentì pronta e tornai negli States per compiere la mia vendetta. Ma Greybear viveva in un attico dentro ad un grande casinò, era quasi impossibile arrivare a lui. Iniziai a lavorare presso una riserva indiana, prendendo tempo e aspettando l’occasione giusta. Fu lì che conobbi Kate. La presi in simpatia e le insegnai a battersi e a tirare con l’arco... cosa che, tra l’altro, appresi vedendo te in azione, al TG, quando vidi un servizio di te che fermavi dei terroristi all’aeroporto di Los Angeles. Con la tua abilità di tiro e gli insegnamenti di Shen Kuei ero convinta che sarei riuscita nella mia impresa.>

<Ma qualcosa è andato storto presumo, altrimenti non saresti in questa situazione.> osservò Clint.

<Esattamente. Misi fuori combattimento le sue guardie del corpo , ma quando mi trovai davanti a lui ... esitai. Non riuscì ad assassinarlo. Desiderare la morte di qualcuno e riuscire ad ammazzarlo sono due cose ben diverse. Altri uomini arrivarono sul posto e fui io sul punto di essere uccisa. Ma arrivò uninaspettato aiuto ...>

<Chi?> domandò Barton , incuriosito dal racconto.

<Taskmaster. Fu lui ad intercedere per me. Si trovava lì per fare affari con lui, manodopera per i suoi loschi affari. Mi conosceva per via del kumitè; mi aveva visto lì e già da allora voleva reclutarmi, ma Shen Kuei lo anticipò. Dato che è raro trovare qualcuno con il nostro medesimo talento, sosteneva che era uno spreco uccidermi. Fece una tregua a nome mio; Greybear mi avrebbe lasciato andare e in cambio lui gli avrebbe fornito sicari a basso costo. In cambio io sarei finita ad addestrare nuove reclute nella sua accademia. Mi salvò la vita ed ero in debito con lui. Quel genere di debito che non si salda mai ...>

<E adesso, dato che lo hai venduto ai federali, la tregua è saltata, giusto?>

<Esatto. > si limitò a rispondere Maya.

La sua storia aveva molto colpito Jess e Clint. Era la storia di una figlia addolorata che voleva vendicare il padre. Un Amleto al femminile. Aveva fatto  alcune scelte sconsiderate, è vero, ma non per questo meritava di doverla scontare tutta la vita o di venire uccisa.

<Il taglio alla spalla non è profondo. Grazie per la medicazione.>

<Ho una cassetta molto fornita. Spesso anch’io torno con ferite di questo genere.> le disse Clint, sorridendole <Cos’hai intenzione di fare, adesso?>

<Non rimarrò per molto tempo. Quanto basta per  riprendermi,e voglio mettere insieme un po’ di soldi per andarmene di New York. >

<E che vuoi fare, continuare a scappare in eterno?>

<Cos’altro posso fare? Quell’uomo mi odia. Devo spostarmi continuamente, altrimenti mi ucciderà, se ne avrà l’occasione.>

<Stronzate. Una vita da fuggitiva ... che senso ha? No non puoi continuare il quel modo ...>

<Ma cos’altro potrei fare, secondo te?> rispose stizzita.

<Ti devi nascondere per un po’, giusto il tempo di guarire.>

<Non so dove andare, e non posso stare a lungo nello stesso posto...>

<Ho io un posto sicuro dove nasconderci. Ci andremo insieme. Ti guarderò le spalle giusto il tempo di riprenderti. Intanto penseremo ad una controffensiva.>

<Non posso chiederti tanto. Io non ...>

<Tu mi hai aiutato a salvare Jess e Kate l’altra volta, quand’ero ferito.> le rispose Clint interrompendola <Adesso tocca a me restituirti il favore. E non intendo discutere... che  razza di supereroe sarei, se ti lasciassi in una situazione del genere? Come minimo mi ritirerebbero la tessera di Vendicatore!>  scherzò , poi aggiunse:

< Inoltre, se sei in questa situazione, in un certo senso è colpa mia; sono stato io a convincerti a ribellarti a Taskmaster, e ora è mio dovere aiutarti ad uscirne. Fidati di me, ce la faremo.>disse guardandola fissa negli occhi . Maya rimase qualche minuto in silenzio, poi si limitò a sospirare un “grazie ...”

 

Phoenix, Arizona. Casinò Royal Flash.

 

Jason Greybear era un enorme nativo americano, alto e robusto, come l’animale di cui portava il nome. Teneva i capelli grigi legati in una lunga e ordinata treccia, e indossava un orecchino con le piume, ma era l’unica eccentricità che si concedeva. Vestiva con un elegante completo gessato e dalla vetrata dell’ultimo piano del suo enorme casinò osservava l’enorme distesa di terra su cui esso sorgeva. Era giusto affermare che era il corrispettivo di Wilson Fisk in Arizona.Aveva il medesimo modo di incedere: lento, silenzioso, con un’espressione insondabile sul volto. Dall’interfono la sua segretaria gli disse che c’era una telefonata da New York.

<Rapporto.>disse freddamente, premendo il pulsante del vivavoce.

<<Signore, sono Brendan. Il bersaglio c’è sfuggito. Non siamo riusciti ad eliminarla. Abbiamo perso le sue tracce.>>

<Maledizione. Quella donna è più sfuggevole di un’anguilla. Sapevo che non sarebbe stato facile...> disse chiudendo la conversazione, deluso e amareggiato Poi aprì la scatola di sigari e ne afferrò uno. Lo accese e fece delle lunghe boccate. Osservava la nuvola di fumo che gli usciva alla bocca come se da essa potesse trarne un utile consiglio. Poi gli venne l’illuminazione ed esclamò ad alta voce:

<Questo è un lavoro adatto per Elektra Natchios ...>

 

Continua ....

 

 

Prossimo numero:https://www.comicus.it/marvelit/images/Carmelo/odf16_2.gif

 

 

Le Note

Iniziamo dal titolo, che stavolta non ho preso da un film famoso ma  da una canzone resa celebre da Jimi Hendrix e in seguito da Lenny Kravitz. Ho pensato che si adattasse perfettamente per l’occasione, visto che questo numero è centrato su Maya Lopez, una donna nativa americana.

In questo numero scopriamo alcune cose sulla sua origine (che ho cambiato, rispetto a quella del Marvel Universe classico) di cosa ha fatto prima venire introdotta nella nostra continuity, su come ha fatto ad entrare nel mondo del crimine e perché era in debito con Taskmaster.

Due parole sugli altri personaggi apparsi (o in un caso, accennati) in questo racconto:

Jason Greybear è una mia creazione originale, ispirato al personaggio di Lincoln Redcrow di Scalped, pregevole serie Vertigo scritta da Jason Aaron. Come l’ho definito per bocca di Maya, è il Kingpin dell’Arizona.

Michael Manfredi ritorna qui dopo l’apparizione nel numero 11. Mike è il “figlio buono” di Silvermane, e anche lui è una mia creazione personale; immaginatelo, fisicamente, somigliante a Milo Ventimiglia (celebre Peter Petrelli della serie TV “Heroes”) anche se il suo personaggio è in parte ispirato al Michael Corleone della celebre trilogia de Il Padrino (o almeno, al Michael dei primi minuti del primo film). Ho dei progetti per lui; tenetelo d’occhio perché vi riserverà molte sorprese.

 

https://www.comicus.it/marvelit/images/Carmelo/odf16_1.png     Shen Kuei, indicato nel racconto di Maya come l’uomo che le ha insegnato a combattere, è un personaggio Marvel di vecchia data, creato da Doug Moench e Paul Gulacy su Shang Chi, Master of Kung Fu # 38-39 nel marzo-aprile del 1976. Ispirato, come lo stesso Shang Chi, alla figura di Bruce Lee, è anch’egli  uno straordinario maestro di arti marziali. Spia e ladro free lance, deve il suo sopranome a causa di un gatto tatuato sul petto.

Per la conclusione vi rimando al prossimo numero ... dove ci sarà come ospite d’onore la più spietata assassina dell’universo Marvel: Elektra! Da non perdere!

 

Carmelo Mobilia.